Diario conciliare di Mons. Pericle Felici: cogliendo qua e là…

(di Giuseppe Rusconi su www.rossoporpora.org) E’ una miniera di notizie, di aneddoti, di riflessioni la cronaca ragionata del Segretario Generale del Vaticano II, che comprende anche la lunga fase preparatoria. Autore del volume che la raccoglie è mons. Vincenzo Carbone, mentre mons. Agostino Marchetto ne ha scritto la prefazione e curato la pubblicazione presso la Libreria editrice vaticana. In primo piano Giovanni XXIII, Paolo VI, il clima conciliare non sempre sereno. Ma c’è anche dell’altro.

Chi è Pericle Felici? Nato a Segni (non lontano da Roma) nel 1911, ordinato sacerdote nel 1933, vescovo nel 1960, riceve la porpora nel 1967; nominato prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, muore nel 1982. Soprattutto seguì da protagonista gli anni del Concilio (ivi compresa la lunga preparazione), dal 1959 al 1965: ne fu sempre “Segretario”, fin dalla costituzione nel maggio 1959 della ‘Commissione Antipreparatoria’. Pericle Felici, dalla sua posizione di attore e osservatore privilegiato che aveva rapporti diretti e regolari con Giovanni XXIII e con Paolo VI, ebbe la costanza di mettere nero su bianco ciò che di interessante (a suo parere, ma spesso anche nella realtà) accadde in quegli anni nella sede di Pietro, centro della Chiesa universale. Affidò i suoi appunti (conservati nel fondo di un inginocchiatoio e scritti a mano) al suo collaboratore ‘conciliare’ mons. Vincenzo Carbone, che era stato incaricato da Paolo VI di occuparsi dell’archivio del Vaticano II. Carbone trascrisse a macchina (e li fuse) i testi sia dell’ Agenda che delle Cogitationes cordis mei di Pericle Felici e continuò ad appassionarsi al tema anche da pensionato, ciò che suscitò l’interesse del nunzio e storico Agostino Marchetto. I due si frequentarono e il diplomatico vicentino, considerato da papa Francesco – in una lettera del 7 ottobre 2013 (vedi in questa stessa rubrica)– “il miglior ermeneuta del Concilio”, venne in possesso delle preziose carte, passate al Capitolo dei canonici vaticani dopo la morte di Carbone nel 2014. Nelle quasi seicento pagine del volume pubblicato dalla Libreria editrice vaticana non si ritrovano esclusivamente notizie e riflessioni riguardanti il Concilio, ma anche – ad esempio – osservazioni papali su questo o quest’altro argomento d’attualità. Per invogliare alla lettura dell’intero testo abbiamo scelto una trentina di passi, che non raramente conservano sorprendentemente una loro piena attualità. Come il lettore potrà facilmente intuire.

GIOVANNI XXIII RICEVE IN UDIENZA PER LA PRIMA VOLTA MONS. PERICLE FELICI (10 febbraio 1960). (Giovanni XXIII) è affabilissimo: ricorda di avermi visto qualche volta in Seminario; e gli faceva impressione quella faccia non proprio alla Borgia (diciamo così). Ora è contento di servirsi dell’opera mia, soprattutto dopo quello che gli ha riferito di me il card. Tardini. E trova di buon auspicio che il primo incontro avvenga alla vigilia dell’Immacolata di Lourdes. Dovrò quindi essere il suo immediato collaboratore per la preparazione del Concilio; chiederò udienza, quando occorrerà, servendomi del tramite di mons. Capovilla, di cui mi descrive i pregi e i difetti. (…) Poi insieme ci rechiamo dal card. Tardini. Un’altra ora di colloquio a tre! Si commenta la morte del card. Aloizije Stepinac, avvenuta nel pomeriggio. Un eroe! dice il card. Tardini. Un eroe, conferma il Santo Padre.

RICORRENTE IL PENSIERO DELLA MORTE (12 aprile 1960). In realtà il pensiero della morte mi domina; particolarmente la sera, e mi domando cosa valga fare tante cose, mettere mano a tante imprese, angustiarsi tanto per le cose di quaggiù, promozioni, posti, carriera, soldi, quando fra breve (e il tempo è sempre brevissimo) bisogna lasciar tutto. E pure tante volte mi assalgono brutte tentazioni di orgoglio che tanto mi fanno soffrire. (…) Ma v’è un modo per sfruttare soprannaturalmente anche queste. Metterle nel Cuore dolcissimo di Gesù, mite ed umile, e pregare, pregare.

Il CONCILIO? DUE MESI DI DURATA (30 aprile 1960, in udienza da Giovanni XXIII). (Per il Papa) la celebrazione del Concilio dovrà durare non più di due mesi. E questo sarà possibile se la preparazione sarà accurata. Prometto che faremo del nostro meglio.

DESTRA E SINISTRA (28 maggio 1960, in udienza da Giovanni XXIII). Al Santo Padre non piace la fraseologia: destra e sinistra. “Ma certo a noi, che siamo venuti da povera gente e ne sentiamo le necessità, certe asserzioni della cosiddetta sinistra fanno più piacere, e talora corrispondono di più al Vangelo”.

CURIA ROMANA 1 (8 giugno 1960). Al Santo Padre fanno dispiacere particolarmente due cose: l’arrivismo e l’ambizione, che spesso infetta la Curia Romana, e il disaccordo, non sempre celato, tra alti Prelati di Curia.

CURIA ROMANA 2 (29 luglio 1960). (Giovanni XXIII) è un uomo di Dio, che vive del suo spirito, senza ostentazione e formalismi. Ha la semplicità delle anime piene dello spirito di Dio; non ricorda le offese, interpreta tutto in bene; ma il male, la malevolenza, l’egoismo, l’invidia, l’arrivismo li vede, li sente e ne soffre molto. Vorrebbe che questo veleno fosse distrutto, soprattutto nella Curia Romana, ove molti sono intossicati, forse in buona fede, forse anche per la gloria di Dio, ma sono intossicati. A proposito di un Prelato, che nonostante le apparenze contrarie doveva brigare abbastanza per diventare cardinale, il Santo Padre mi disse un giorno: “Dovrò pure farlo cardinale, ma perbacco (e qui batté il pugno sul tavolo), quanto starebbe meglio un po’ più di umiltà!”

PADRE PIO (1 novembre 1960, in udienza da Giovanni XXIII). (Il Papa) accenna anche a padre Pio. Sento purtroppo cose che non mi sarei aspettato; il Papa vorrebbe da quel religioso più sottomissione e più umiltà. Questo è veramente grave. Come è vero che santità non è nelle stimmate, e il fanatismo può rovinare anche anime elette.

LA PREPARAZIONE DEL CONCILIO 1 (10 marzo 1961, in udienza da Giovanni XXIII). (Il Papa) sottolinea due concetti. Il Concilio dev’essere preparato nel silenzio, nell’umiltà, per dar modo a Dio di produrre grandi frutti; per questo lo metterà sotto la protezione di San Giuseppe. Nella preparazione del Concilio, che è opera di Dio, dobbiamo aspettarci grandi prove.

LA PREPARAZIONE DEL CONCILIO 2 (18 maggio 1961, in udienza da Giovanni XXIII). (Il Papa) è nel suo studio al III piano. Sta benissimo, eppure mi conferma di essersi sentito tanto male la sera precedente; fu necessario (ma egli non voleva) chiamare il medico. Ma tutto fu messo a posto con un po’ di magnesia. Forse disturbi digestivi, dovuti a stanchezza e ad infreddatura. Parliamo per circa un’ora sul Concilio, la possibilità di tenerlo alla fine del 1962, la preparazione alla prossima seduta della (commissione) centrale.

CONCILIO E GIORNALISTI 1 (16 giugno 1961). Al termine della seduta (della Commissione centrale) il Santo Padre, con molta benignità, mi invita a pensare alla costituzione di un ufficio stampa degno del Concilio. Lo assicuro che qualcosa è già stata fatta. Di più si farà. (…) Aprire troppo le porte ai giornalisti è molto pericoloso; e poi è inutile aprirle troppo ora, che di notizie se ne possono dare poche.

CONCILIO E GIORNALISTI (E LAICI) 2 (17 giugno 1961, in udienza da Giovanni XXIII). Nel discorso che (il Papa) farà, parlerà anche dell’atteggiamento che devono assumere i laici e la stampa di fronte al Concilio. Devono rendersi conto che non ci si trova di fronte ad un Parlamento, ma ad un atto di alto magistero della Chiesa cattolica. (…) Io mi permetto di insistere su questo punto. Mi sembrava essenziale per la buona riuscita del Concilio. I laici e la stampa al loro posto. (…) Importante sarebbe che alcuni vescovi e anche cardinali parlassero più prudentemente alla stampa. Ne ho già fatto parola al card. Tardini.

IL GANCIO E IL FACCHINO (4 novembre 1961). Il card. Montini, che ha celebrato il pontificale, incontrandomi dopo la funzione mi ha salutato, dicendo scherzosamente che io ero una specie di gancio, a cui erano sospese le sorti della Chiesa. Gli ho risposto che io ero solo un povero facchino.

LA PREPARAZIONE AL CONCILIO 3 (7 maggio 1962, in udienza da Giovanni XXIII). Esaminiamo insieme i promemoria da me preparati sia sui recenti avvenimenti della (commissione) centrale, sia sul piano di lavoro per la preparazione immediata del Concilio. Dico la mia perplessità per la costituzione della sottocommissione (per studiare i temi da portare al Concilio) richiesta dal card. Frings (arcivescovo di Colonia). Il Santo Padre è d’avviso che, se insistono molto, è più opportuno non contrariarli. (…) Prego il Signore che illumini il Papa e me, per fare quel che è meglio per il Concilio. Mi sembra però che stia facendo presa sull’animo del Papa la corrente straniera, anti-Curia. Sarà forse bene equilibrare.

LA PRIMA FASE DEL CONCILIO (7 dicembre 1962). Fare un bilancio di questa prima fase del Concilio non è facile; un giudizio severo lo darà il tempo; io penso che il lavoro compiuto di preparazione e di sedute conciliari sia prezioso; è una semina che darà a suo tempo frutto. Quando? Lo dirà il Signore, qui incrementum dat. Per me questi due mesi sono stati una croce continua: tensione senza soste, critiche ingiuste e malevole, lettere anonime, dalla fonte inquinata facilmente riconoscibile, difficoltà d’ogni genere, derivate in parte dalla organizzazione del Concilio, da me non voluta anzi contrastata, solo l’obbedienza, e purtroppo a me attribuita.

DIFFERIRE LA SECONDA FASE DEL CONCILIO? (28 aprile 1963, in udienza da Giovanni XXIII). Mons. Capovilla mi intrattiene prima per alcuni momenti: mi dice che la salute del Papa non è buona e, poiché momentaneamente si prevede il peggio, sarà forse opportuno convincerlo a differire la riapertura del Concilio. Anche io sono del parere che, con un Papa non in buone condizioni, non si possa lavorare tranquillamente.(…) Al principio dell’udienza mi sono permesso di raccomandare (al Papa) di diminuire il suo lavoro, le udienze, ecc… Mi risponde: “Ecco le solite prediche”.

LA MORTE DI GIOVANNI XXIII (3 giugno 1963). Alle 19.00 sul sagrato di san Pietro il card. Traglia (Cardinale Vicario di Roma) celebra una santa Messa pro Pontifice infirmo. Una folla numerosissima segue nel più assoluto silenzio e con commozione il sacro Rito. Il Papa sta morendo. Al termine della Messa, mentre si canta l’inno dell’amore e della carità, Ubi caritas et amor, alle ore 19.49 il santo Padre va in Paradiso. (…) Molti si inginocchiano. Una scena commoventissima!

I MODERATORI DEL CONCILIO 1 ( 29 agosto 1963). Quando vennero scelti i Moderatori nelle persone dei cardinali Agagianan, Lercaro, Döpfner e Suenens, io mi permisi di far presente al card. segretario di Stato (Amleto Cicognani) come alcuni di essi fossero dichiaratamente uomini di parte, e quindi poco adatti a moderari. Il Segretario di Stato mi rispose con un certo risentimento. Ma a conti fatti, dopo esperienze dolorose, fu lui il primo a riconoscere lo sbaglio fatto nella scelta delle persone.

I MODERATORI DEL CONCILIO 2/DON DOSSETTI (ottobre 1963). Purtroppo i Moderatori hanno seguito non una volta sola vie poco prudenti. Hanno incominciato a far da sé, mettendo da parte la Segreteria Generale e servendosi dell’opera di don Dossetti, che il card. Lercaro ha presentato come Segretario dei Moderatori. Ho lasciato fare, finché il nodo non è venuto al pettine. (…) Ho allora protestato con il card. Agagianan, affermando che il Segretario dei Moderatori, a norma del Regolamento, era il Segretario Generale ed io non ammettevo sostituti, se non per volontà del Papa, e ritenevo nullo quanto fino allora fatto da don Dossetti. Lo stesso dissi al card. Döpfner. Il Papa, da me informato della cosa, disse categoricamente che non voleva don Dossetti a quel posto; se ne tornasse anzi a Bologna

COLLEGIALITA’ 1 (ottobre 1963). Vale la pena di ricordare quanto io abbia dovuto lavorare perché nella formula di approvazione dei decreti, da parte del Papa, non entrassero quei concetti di falsa collegialità, che erano stati oggetto della votazione del 30 ottobre). Si voleva ridurre il Papa ad uno che consentiva a quanto deciso. Il Papa, cui riferii la cosa, osservò: “Ma sono loro che devono consentire con me, non io con loro!”. Optime dictum!

PAPA E VESCOVI (20 marzo 1964). Vedo con grande pena questo fenomeno tipico del Concilio: rispetto per il Papa, ma noncuranza delle sue ordinanze o disposizioni. Il ritornello è sempre quello: sono opera della Curia! Ma, oltre tutto, chi firma il Motu proprio non è il Papa?

COLLEGIALITA’ 2/ GIOCHI DI PAROLE (27 marzo 1964). Dopo la funzione incontro mons. Pietro Parente (assessore della Congregazione per la Dottrina della Fede, poi segretario della stessa, infine cardinale, propugnatore del principio di collegialità). Gli dico la mia perplessità per il testo preparato (collegialità) “Anche il Papa non è ancora del tutto tranquillo”, osserva lui, che aggiunge: “Abbiamo fatto il possibile, ma il testo come è può andare; l’iniziativa rimane sempre al Papa (si invitet). Quindi abbiamo messo il termine collegialità, ma l’abbiamo poi svuotato”. Gli faccio qualche difficoltà, ma lui assicura che si può stare tranquilli. Ma proprio quello che fa stare tranquillo mons. Parente, non fa stare tranquillo me; non si risolve una questione dogmatica ponendo un’espressione (tanto desiderata dagli altri), e poi svuotandola (o meglio credendo di averla svuotata)!

TRE OSSERVAZIONI DI PAPA MONTINI (9 aprile 1964, in udienza da Paolo VI). Tre cose mi fanno impressione di quanto mi dice il Santo Padre: che, incominciato il Concilio, è diminuito il numero delle conversioni; che il comunismo è alle porte; che la situazione dell’America latina, dal punto di vista religioso, è tragica: un fenomeno di crescenza, forse, commenta il Santo Padre.

ORGANIZZAZIONE POST-CONCILIARE/COLLEGIALITA’ 3 (21 maggio 1964, in udienza da Paolo VI). Il Papa mi intrattiene poi su vari argomenti. Mi parla dell’azione che la Chiesa può fare per coloro che non credono in Dio o addirittura lo avversano, e mi consegna la materia per poter far preparare qualche documento. Mi parla ancora dell’organizzazione postconciliare: il governo della Chiesa deve corrispondere di più alle esigenze del mondo moderno; ma sia ben chiaro che l’autorità centrale deve essere e rimanere solo del Papa. I vescovi potranno contribuire; potranno costituire un organismo del tipo della Commissione centrale, con vescovi rappresentanti del mondo, che si succedano e si alternino ogni dato periodo; ma sempre e solo con voto consultivo.

LA CAMPAGNA CONTRO PIO XIII (21 maggio 1964, in udienza da Paolo VI). Faccio poi cadere il discorso sulla campagna denigratoria di Pio XII (Il Vicario, di Rolf Hochhuth) e ne domando al Papa il motivo (dato che Pio XIII è morto già da 5 anni). Mi risponde: “Purtroppo la campagna non è diretta contro la persona di Pio XII o la sua opera di salvezza, anche degli ebrei (di più allora non si poteva fare), quanto piuttosto contro la Chiesa e la linea di Pio XII riguardo al comunismo; sono infatti i comunisti che manovrano e portando avanti – ingiustamente – la linea giovannea, vogliono praticamente neutralizzare l’opera presente, che cerca di stringere un po’ i freni”.

LA DURATA DEL CONCILIO 1 (7 ottobre 1964, in udienza da Paolo VI). Alle 12.15 sono dal Santo Padre. Cerca di conoscere la mia mente sul termine del Concilio; mi accorgo che sarebbe contento di finire in questa sessione (la terza), ma, se è necessario, consente anche ad una quarta, breve sessione.

PASOLINI (7 ottobre 1964, in udienza da Paolo VI). Il Papa esprime il suo disappunto perché dei vescovi sono andati a vedere il film di Pasolini “Il Vangelo secondo san Matteo”.

LA DURATA DEL CONCILIO 2 (19 ottobre 1964). Quando alcuni si sono accorti che vi era la possibilità di chiudere il Concilio con questa sessione, hanno messo in opera ogni mezzo perché questo non avvenisse. Ad enumerare tutte le manovre dei Moderatori (tre: Lercaro, Döpfner e Suenens) per favorire le tendenze dilazionatrici di alcuni, non si finirebbe più. Quel che è buffo (per non dire altro) è che attribuiscono le manovre a me, che sarei il manutengolo della Curia Romana! (…) Questo Concilio ha suscitato un gran fermento: la pastorale, l’ecumenismo, la libertà; ha aperto la bocca a tanti sconsiderati, che finora avevano provvidenzialmente taciuto! Questo prolungare il Concilio sine fine, questo fare, disfare, rifare, ridisfare gli schermi è urtante.

LA DURATA DEL CONCILIO 3 (29 ottobre 1964, in udienza da Paolo VI). Durante l’udienza comunico (al Papa) tra l’altro l’infelice intervento della mattina fatto dal card. Suenens sulla limitazione delle nascite, e la mia impressione che molti, e in primis i tre Moderatori, vogliono portare il Concilio per le lunghe, sì che non basterà neppure la quarta sessione. Il Papa pensa di no; e, caso mai, prima della quarta sessione, si dirà in modo perentorio che quella sarà l’ultima. Ma ascolteranno il Papa?

PROTESTANTI E HANS KǗNG (18 marzo 1965, in udienza da Paolo VI). Alle 12.45 circa udienza del Santo Padre. Mi dice, certo con un sorriso di pena: “I protestanti stanno diventando i nostri maestri”. “Ma non deve essere così, Padre Santo”, rispondo. Mi parla ancora di Hans Küng. Non gli scriverà la lettera; si troverà un’altra via per fargli comprendere come sia nella via sbagliata.

CELIBATO (7 ottobre 1965, in udienza da Paolo VI). Udienza del Santo Padre alle 19.30 (…) Alcune questioni del Concilio: particolarmente quella del celibato. Il Santo Padre non vuole che se ne tratti in Concilio e mi incarica di prendere i passi in tempo per prevenire e, se è il caso, per controbattere: lo farò.

SI CONCLUDE IL CONCILIO (8 dicembre 1965). Bella giornata: i Padri sfilano , come il lontano 11 ottobre, festa della Maternità di Maria. La funzione è un po’ lunga, ma bella e toccante; al termine leggo il breve di chiusura; quindi torno dal Papa per ricevere la benedizione. Mi abbraccia e mi dice parole di compiacimento e di ringraziamento. Tutto a lode di Dio. Seguono le Acclamationes e la benedizione del Papa, con il congedo finale. Forse nessun Concilio ha avuto una fine così bella e promettente.

ARRIVA IL SINODO (20 luglio 1966). S. E. mons. Samoré mi consegna da parte del Santo Padre il progetto del Regolamento del Sinodo Episcopale: da vederlo, correggerlo come credo e poi riproporlo al Papa. Domando a S. E. mons. Samoré chi dovrà interessarsi del Sinodo: mi risponde che il Santo Padre ha designato la mia persona. Se si tratta di fare la volontà del Papa, va bene. Personalmente non sono entusiasta. Chi sa come funzionerà e cosa combinerà questo Sinodo. Deus nos adiuvet! (di Giuseppe Rusconi su www.rossoporpora.org)

Dopo la filosofia moderna, il tomismo

(di Piero Vassallo) “Come ha ben osservato Pio X nell’Enciclica Pascendi il male del quale soffre il mondo moderno è anzitutto un male dell’intelligenza: l’agnosticismo. Esso, sia sotto forma di positivismo empirico sia sotto quella di idealismo, mette in dubbio il valore ontologico delle nozioni primordiali nonché dei primi principi della ragione, non permettendo più di provare con certezza obiettivamente sufficiente l’esistenza di Dio” (Réginald Garrigou-Lagrange)

Quasi non avessero udito il rumore prodotto dalla rovinosa caduta della filosofia moderna nel vaniloquio francofortese e fossero altresì ignari dell’imbarazzante regresso delle avanguardie laiciste all’antica eresia gnostica, i compunti e saccenti prelati, addetti alla diminuzione dell’autorità cattolica e alla modernizzazione della dottrina, hanno steso il velo di un immotivato e autolesionistico silenzio sulle trionfanti ragioni della metafisica tomista.

Con felice e tempestiva scelta la veronese casa editrice Fede & Cultura ha deciso di pubblicare, quasi provocatoriamente, Essenza e attualità del tomismo, il magistrale saggio del padre domenicano Réginald Garrigou-Lagrange (1877-1964), opera che ha costituito la premessa alla restaurazione della filosofia compiuta da padre Cornelio Fabro (e gettata al vento dai velisti in navigazione clericale sulle acque torbide e infide della modernizzazione).

Scritto da uno specialista e indirizzato al clero dotto, il testo di padre Réginald è tuttavia comprensibile dal qualunque lettore cattolico istruito dal catechismo e interessato seriamente alle indeclinabili ragioni della metafisica, in uscita vittoriosa dai labirinti della modernità e dalla palude del modernismo.

L’illustre domenicano sostenne infatti che le verità della philosophia perennis hanno radice nel senso comune e citò quale prova di tale affermazione l’uso universale del verbo potere: “dicendo, per esempio, che la materia può diventare – per assimilazione nutritiva – pianta, animale o carne umana, tutti diciamo che l’intelligenza umana può conoscere facilmente i primi princìpi e le conclusioni che ne derivano immediatamente”.

La metafisica ha origine dal pensiero comune: i filosofi che hanno confutato le suggestioni dello scetticismo, hanno attuato il passaggio dalla nozione generica di potere “alla nozione distinta di potenza sia attiva che passiva e a quella di atto. … Come conciliare senza le nozioni di potenza ed atto, il principio di non contraddizione o di identità con il divenire e la molteplicità degli esseri?”

I modernisti hanno avvelenato la radici della filosofia rifiutando il programma inteso alla adaequatio rei et intellectus per gettarsi all’inseguimento delle chimere dei progressisti.

Il rifiuto delle tradizionali nozioni di potenza e atto ha screditato i princìpi primi del pensiero, ha promosso la mitologia intorno all’evoluzione della verità (“Veritas non est immutabile plusquam ipse homo, quippe quae cum ipso, in ipso, et per ipsum evolvitur”), ha frenato la reazione all’assurdo sessantottino (Herbert Marcuse secondo il quale il principio di identità e non contraddizione è fascista) e ha indebolito la reazione al gorgo tenebroso e disperato della rivolta contro la vita, progettata dalle filosofie malthusiane e ultimamente avviata dalla finanza iniziatica e dalla politica decerebrata e servile.

Padre Réginald, quasi prevedendo e annunciando le fragilità buoniste e gli empiti sincretisti in scena nel Vaticano II, affermava l’impossibilità di scendere a patti con le filosofie in rivolta contro la realtà, e citava al proposito la squallida parabola della riduzione modernistica della fede a pura esperienza religiosa: “Era l’indizio non di una crisi della fede, ma di una malattia assai grave delle intelligenze, che conduceva il modernismo sulle tracce del protestantesimo liberale e, attraverso il relativismo, allo scetticismo assoluto”.

Opportunamente padre Réginald propone lo schema storiografico, che deve guidare gli studiosi cattolici alla comprensione dei mortiferi errori in circolazione nella baldoria moderna: “All’origine degli errori d’oggi ci sta, fin dai tempi di Hume e di Kant, il seguente sbaglio: la relazione essenziale dell’intelligenza con l’essere extramentale viene soppressa: perciò l’intelligenza moderna non può più elevarsi con certezza a Dio, primo Essere; essa ricade su se stessa e dice finalmente che Dio non esiste nell’ordine trascendentale, ma che Egli diviene in noi. Fu così che l’agnosticismo di Kant condusse al panteismo di Fichte e all’evoluzionismo assoluto di Hegel”.

Un approfondito esame delle radici gnostiche dello hegelismo e dell’evidente naufragio del pensiero moderno nel nichilismo, “fenomenologia dell’autodistruttore”, giusta la magistrale definizione di Marcel de Corte, segnala ai cattolici l’urgenza di una seria revisione degli incauti e rovinosi slanci sincretistici suggeriti dalle tesi di Giovanni XXIII intorno all’autocorrezione del pensiero moderno.

L’estenuante e sterile dialogo con la fallimentare filosofia moderna può essere finalmente rovesciato nella rinnovata cognizione dell’eccellenza della metafisica di San Tommaso, “che considera ogni cosa non in rapporto al movimento, al fieri, né in rapporto all’io umano o all’azione umana, bensì in rapporto all’essere, cioè in rapporto al primo intelligibile, oggetto proprio della metafisica”.

Alla gerarchia cattolica la crisi del moderno offre l’opportunità di recuperare le verità filosofiche conquistate da San Tommaso d’Aquino e opposte agli errori del moderno da geniali interpreti quali sono stati Réginald Garrigou-Lagrange e Cornelio Fabro.

L’uscita dalle griglie incapacitanti del buonismo non può aver altro inizio che la riscoperta della indeclinabile filosofia dell’Angelico.

Quel pasticciaccio nella Chiesa, ovvero il Mistero della Croce

(Fonte: www.sanpiox.it) Il nome di Jean Ousset (1914-1994) dice poco al lettore italiano. In Francia è più conosciuto, specialmente negli ambienti del tradizionalismo cattolico, sin degli anni ’50, quando il vento di un liberalismo cattolico rinascente incominciava a soffiare soprattutto nella Chiesa francese. Fondò una associazione di cattolici militanti, la Cité catholique, che diventerà poi l’“Office”, che tanta parte ebbe nella formazione intellettuale e morale di una élite veramente cattolica e militante. Il suo libro Pour qu’Il règne ricevette nel 1959 una lettera di incoraggiamento e di approvazione da parte del Delegato apostolico della Santa Sede per tutta l’Africa francofona che rispondeva al nome di Mons. Marcel Lefebvre.

«Lei ridice con tutti i Papi – scriveva allora il Prelato francese all’Autore – ed insieme a Nostro Signore stesso, “Venga il tuo regno”; lei vuole, innanzitutto, purificare gli animi da tutto ciò che in loro e intorno a loro si oppone a questo regno. Seguendo gli obbiettivi designati dai Successori di Pietro, lei si sforza di conoscere vieppiù i gravi errori che essi denunciano, per distruggerli; ed il mezzo che lei preconizza e tra quelli più efficaci: lavorare a fare luce negli spiriti in circoli ristretti, indicando in modo preciso la Verità da comprendere e da affermare, e l’errore da combattere» (Lettera del 24-03-1959, pubblicata come prefazione alla 1a edizione).

La lettera di cui pubblichiamo per la prima volta la traduzione italiana è molto bella e profonda. È la risposta piena di fede ad un lettore scoraggiato della situazione nella Chiesa (siamo nel 1966, chissà che cosa avrebbe scritto sotto il pontificato di papa Francesco!), scandalizzato dalla «pagaille» (termine familiare per baraonda, trambusto, che ho tradotto con pasticciaccio, nel senso di situazione ingarbugliata e misteriosa, senza via d’uscita) nella Chiesa. Di fatto, lo sconosciuto lettore è tentato di andarsene sbattendo la porta, di disertare il campo di battaglia, dal momento che i primi a tradire sono proprio gli ufficiali. Jean Ousset risponde con gli argomenti della storia e quelli delle Fede.

Possano queste righe confortare il cattolico del XXI secolo che avrebbe la tentazione di fare come l’anonimo lettore scoraggiato! L’appassionata risposta di Jean Ousset non ha perso una briciola di attualità. Egli ripete, chiare e forti, le parole del Maestro: «Uomini di poca fede, perché dubitate?».

don Luigi Moncalero

* * *

Egregio Signore,

Non è certo piacevole rispondere alla sua lettera. Ci vorrebbe un volume. E ancora non si sarebbe sicuri di fare bene.

Tacere?

Confesso di non potermi fermare a questa soluzione. Non per il desiderio, capisca bene, di correre dietro ad un abbonato che se ne va. Ma perché l’amicizia verso di noi, che traspare dalle sue parole, ha diritto ad una risposta, tanto brutale quanto la collera che la anima. […]

Lei mi dice di aver perso la Fede.

Non ne sarei così sicuro. Proprio questo traspare dalla sua lettera; una rivolta, almeno, verso ciò che è l’oggetto stesso della Fede. Prova che questa Fede (nel senso stretto del Giuramento antimodernista: «adesione ad un insegnamento…» ecc.) è in lei più lucida, più ardente, al di là delle apparenze che, nel clima del “volemose bene”, fa sì che coloro che si dicono ferventi non sanno neanche a che cosa credono. Sono quelli pronti a bersi tutto, anche la carta che gli è propinata alle porte delle chiese!

Il suo peccato mi sembra essere più contro la Speranza. Non la speranza secondo il mondo, fatta di ottimismo beato […] ma l’autentica Speranza cristiana. Virtù teologale. Soprannaturale. Serena, benché senza illusioni. Più forte della morte e dei peggiori scandali… ; a condizione però che sia nutrita di buona dottrina e di una sufficiente conoscenza della storia della Chiesa.

Ora, benché il peccato contro la Speranza possa essere disastroso tanto quanto quello contro la Fede, non si risponde al peccato contro la Speranza allo stesso modo con cui si risponde al peccato contro la Fede.

Lei mi fa venire in mente un soldato che abbandona il servizio e l’amore alla sua patria perché non sopporta più le miserie o gli sbagli di troppi suoi capi. Tragica situazione. Ma tali diserzioni o rivolte conducono inevitabilmente a situazioni ancor peggiori.

*

Troppi eccessi clericali la scandalizzano. C’è di che perdere la fede.

Di fatto, spesso, il rifiuto della fede riposa sulla protesta contro quell’eccesso, diverso, ma analogo: «Scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani» di un Dio che si abbassa, soffre e muore sulla croce tra due malfattori, sotto gli insulti ed i sarcasmi di ciò che era reputato il fior fiore della religione legittima di allora. «Pasticciaccio», come lei dice, che spense lo slancio dei primi discepoli, ma che il Maestro, il mattino della Risurrezione, si compiacque di commentare «a due di loro» sulla strada di Emmaus. Incominciando con trattarli da «… stolti e tardi di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno detto! Non doveva forse il Cristo patire tali cose e così entrare nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegava loro… » ecc. (Lc 24, 25ss).

Così è della Chiesa.

Non crede che anch’Essa debba soffrire? Come il Maestro! Prima che le sia concesso di diventare interamente la Gerusalemme celeste!

Quasi che la vita, l’essere stesso della Chiesa, non fossero, o non fossero più, la vita e l’essere di Gesù Cristo proiettato nelle successioni della storia e nelle moltitudini delle nazioni.

«E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegava loro… ».

È questo il metodo!

Cominciando dallo studio della Chiesa sin dai suoi inizi e percorrendone tutta la storia.

È a causa dell’ignoranza di ciò che la Chiesa non ha smesso di subire da venti secoli a questa parte che noi ci facciamo della nostra santa religione un’idea scipita totalmente sviluppata dal conformismo clericale. Mentre invece, sin dal Calvario, Dio ha costantemente permesso, Dio permette, che la storia della Chiesa sia (almeno sotto un certo aspetto) un dramma clericale. Dramma analogo a quello della vita, della passione del Signore.

Lei mi parla del «pasticciaccio attuale».

Anche se vero, l’argomento è debole nella misura in cui si limita al solo «pasticciaccio» attuale. Dal momento che, in un certo senso, tutta la storia della Chiesa è la storia di un pasticciaccio perpetuo.

Al punto tale che, se si dovesse perdere la fede a causa del «pasticciaccio», si peccherebbe per difetto e non per eccesso, se si evocasse solamente il pasticciaccio di oggi.

Dovendosi rivoltare, perché rivoltarsi solo in nome dell’ultima “parte”, quando c’è il “tutto”?

Di fatto, spingendolo a fondo, l’argomento si rovescia.

A considerare il “tutto” e non solo la parte che ci riguarda da vicino perché la viviamo… («E cominciando da Mosè… »). Intendo dire che se si prende la storia della Chiesa sin dall’inizio e se si esamina il rinnovarsi dei suoi drammi lungo il corso dei secoli, ciò che, considerato in modo frammentario, farebbe perdere la fede, diventa invece un argomento a favore di questa, se si medita nella sua totalità.

Lei si infrange sugli scandali di un certo clericalismo attuale.

Mi creda, bisogna infrangersi su molto di più per cadere davvero in ginocchio.

Perché lo spettacolo di questo “molto più” è tale che non può più essere equivoco. Bisogna, piaccia o no, riconoscere il segno di un dramma divino. Tragedia della Redenzione che continua svolgersi «fino a che il numero degli eletti sia completo».

In tal modo l’argomento contro diventa argomento a favore, se lo si medita alla luce soprannaturale della Passione del Signore.

L’inferno non si perde di coraggio!

E ciò è riconfortante! Che segno ammirevole della eterna attualità della nostra fede! Quanto noi dobbiamo preferire questo stato di allarme continuo alla vita di tante “religioni” senza garbuglio che Satana non si prende neanche la pena di passare al setaccio.

Il male, il grande male, consiste nel fatto che noi cattolici non conosciamo e non meditiamo la storia della Chiesa. Quelle lotte, quei sommovimenti ci sembrano inconfessabili perché crediamo che la calma e la pace dovrebbero essere gli unici segni della sua divinità.

Inoltre, noi lasciamo diffondere lo slogan pubblicitario secondo il quale da noi la vita sarebbe più pacifica e serena che altrove. E poi ci stupiamo dell’inerzia generale. Come diceva Bernanos: «Scriveranno sul loro tempio: Qui si mangia meglio che là di fronte. E si stupiranno di raccogliere solo dei ventri».

Persecuzioni che vengono dal di fuori? … Passi! Ma i turbamenti, i tradimenti, gli scandali interni e come tra di noi, ecco che allora perdiamo la fiducia.

Eppure né la dottrina né l’esperienza di una storia venti volte secolare ci consentono di affermare che quaggiù la Chiesa debba essere necessariamente composta di fedeli edificanti, di sacerdoti di buona dottrina, soprannaturali, di vescovi senza rispetto umano, coraggiosi davanti a Cesare e sottomessi di cuore alla Santa Sede… o, che so, di papi impeccabili benché infallibili.

«Bisogna che ci siano le eresie – scrive un autore non sospetto d’integrismo: Karl Rahner (Gefahren im heutigen Katholizismus…) – perché esse sono più che le semplici conseguenze di una libertà arbitraria. Appartengono a quelle oscure cose che devono essere, affinché nessun uomo, e quindi anche la verità dell’uomo, possa gloriarsi davanti a Dio.

Di conseguenza il cristiano non deve stupirsi d’incontrare le eresie. Meglio, se le aspetterà. Le considererà come una tentazione inevitabile, o come la tentazione (la prova) più alta, più sublime. Quella in cui le tenebre si travestono in angelo di luce. E se il cristiano non distingue nessuna eresia […] non deve considerare una simile pace come qualcosa di normale. Deve piuttosto domandarsi, con timore, se gli occhi dello spirito non siano diventati ciechi e il suo cuore insensibile alla differenza tra vero e falso, al punto da non saper più distinguere l’eresia come tale».

Se conoscessimo meglio la storia della Chiesa, non metteremmo in dubbio la predilezione di Dio per questo genere di prove.

Sarebbe mancare del giusto senso del divino l’ignorare, il tacere, il nascondere deliberatamente quello che Dio, negli annali cristiani, ha chiarissimamente lasciato sovrabbondare.

Dio si è forse sbagliato? O siamo noi, piuttosto, che abbiamo la tendenza a preferire una commediola da oratorio alla tragedia sconvolgente della Redenzione? I santi, da parte loro, hanno amato il sapore di questo vino e se ne sono inebriati. I nostri cristiani “adulti”, invece, preferiscono la sciacquatura del bicchiere.

Un gran numero di cristiani è preso da scoramento davanti a certi scontri. Strani questi soldati di una Chiesa che si definisce militante; curiosi questi guerrieri sconvolti dalle prime avvisaglie di battaglia.

Ma dove credono di essere?

Perché Dio dovrebbe risparmiarci ciò che non ha risparmiato a nessuna generazione cristiana?

«Ma noi ne abbiamo il diritto… ».

Ma di cosa si lamenta? […]

Tutto ciò le sembra il segno di un «pasticciaccio brutto», le fa «perdere la fede», la spinge ad «abbandonare».

Ma non ha mai pensato a quante insolenze, rivolte, bassezze l’incessante corteo di eresie e di scismi ha suscitato, a confronto delle quali quelle che subiamo oggi sono quisquilie, bazzecole, pinzellacchere?

Tanto per gradire… gnostici e manichei, all’inizio; montanisti[1] e novaziani[2], nel secondo secolo, accompagnati da quartodecimani[3], rebattezzanti[4], millenari, antitrinitari. Poi i donatisti[5] e i meleziani[6], precursori dell’arianesimo, che ha conosciuto diversi corsi e ricorsi. Pelagio e Celestino, Nestorio ed Eutiche. E tutti gli altri… fino ai nostri giorni. Con un ritmo di tre o quattro eresie per secolo.

Oggi, da lontano, tutto sembra chiaro, netto, perfettamente distinto: da una parte i fedeli, dall’altra gli eretici o gli scismatici. Ma anche per coloro che vissero tutto questo era un «pasticciaccio brutto». Non si sapeva con chi stare. Il parroco da una parte, il viceparroco dall’altra. I vescovi, collegialmente discordi. Gli Atanasio e gli Ilario una insignificante minoranza. E come sempre erano gli altri che – modestamente – pretendevano di avere il senso della storia, di essere aggiornati, testimoni del secolo, ecc.

Il distacco nel tempo tende a deformare la prospettiva, mettendo ordine laddove fu «pasticciaccio brutto», eccome.

S’immagini un po’ come sarebbe il nostro morale se avessimo sotto gli occhi gli accessori inevitabili di tanti errori: polemiche, insulti, tumulti, conflitti, torture, assassinii, apostasie, tradimenti, vigliaccate, che la storia non si prende neanche la briga di raccontare dal momento che ce n’è a bizzeffe.

Poi, dal momento che lei se la prende con il clero, pensi allo stato della Chiesa nel X secolo. L’epoca peggiore! Niente scuole, niente insegnamento. L’ignoranza è tale che i concilii (p. es. quello di Trosly[7], 909) sono costretti ad obbligare i preti stessi a studiare cose di una semplicità disarmante.

Eppure, caro Signore, non dubitiamo affatto che anche in questi periodi spaventosi, il Cielo ebbe la gioia di vedere alcuni fedeli “mantenere la posizione”. Autentici consolatori di Cristo nella sua agonia.

«Pasticcio brutto» del Grande Scisma d’Occidente. Due, anzi tre papi, che si anatematizzano a vicenda. «Pasticcio» del “concilio” di Basilea, che dichiara il papa sospetto di eresia. «Pasticcio» di popoli interi cadere nell’eresia, clero in testa. «Pasticcio» di vescovi gallicani e giansenisti. […]

E Dio permette tutto questo!

Così come ha permesso la via Crucis e la crudele Passione del Figlio suo. Sempre per lo stesso motivo: la sua maggior Gloria a la maggior Gloria degli eletti.

Mistero della Croce che redime, Mistero della Chiesa. Mistero d’innumerevoli prove subite dai santi. Un’unica e medesima prospettiva.

Dal momento che la nostra concezione di Chiesa si de-soprannaturalizza, si razionalizza, vuole essere sempre più “nel senso della storia”, cioè nel senso di un messianismo umano, per questo motivo perdiamo l’intelligenza e l’amore del mistero adorabile della santa passione di nostra madre, la Chiesa.

Che fare, allora?

Quello che fecero la Veronica e il Cireneo al passaggio del Maestro coperto di sangue, di polvere, di sputi, di vomito vinoso (è la Sacra Scrittura che lo dice, senza paura delle parole); la corona di spine che cinge i suoi capelli di sangue viscoso; il volto tumefatto; barcollante sotto la croce; spintonato dalla soldataglia; preso a sputi dal popolo; condannato dai dottori, dai preti e dai teologi di allora.

Per noi il dovere è chiaro

Innanzitutto non avere paura, infischiarsi dei sarcasmi; non disertare. Fendere la folla, avanzare risolutamente verso Gesù, restare forti nella fede.

Da venti secoli il mistero si rinnova: il sembrarne sorpresi solo oggi non può certo essere una scusante.

Siamo pronti e, se possibile, più solleciti di Veronica, a riconoscere, qualunque sia la sporcizia che lo nasconde, il santo Volto del nostro Dio, il santo Volto della Chiesa.

Con un gesto dolce e pietoso sappiamo rendere a questo Volto così caro la sua purezza essenziale.

Asciugare il santo volto, come Veronica. Avendo cura, però, di non aggiungere dolore a dolore. Senza scorticarlo ancor più con la nostra collera o la nostra impazienza. Senza riaprirne le ferite. Sebbene ella abbia dovuto, per avvicinarsi, aprirsi un passaggio, spingere via i curiosi, andare oltre a non so quale precetto legale, forzare il cordone di legionari.

Aiutare a portare la croce, come Simone, certamente in modo efficace. Ma senza aggiungere altre asprezze, senza sgarbatezze, senza scossoni dolorosi.

Facciamo attenzione a non distogliere lo sguardo davanti allo spettacolo ignominioso. Sappiamo riconoscere Colui, e quindi Colei, che sembra vacillare davanti a noi. Tanta sporcizia, tante echimosi non ci devono farne dimenticare la purezza e la santità sostanziali.

Beati noi se, dopo aver seguito tutto, visto tutto, ascoltato tutto, come il centurione del Calvario, ce ne ripartiamo professando forte e chiaro che veramente quell’uomo è il Figlio di Dio, che veramente la Chiesa è la Sposa immacolata di Cristo.

«Non l’abbiamo riconosciuto – profetizzava Isaia (cap. 53). Senza bellezza né splendore… abbietto, l’ultimo degli uomini, l’uomo dei dolori, che conosce la sofferenza e quasi cerca di nascondersi la faccia … lebbroso». Sì, è tutto vero. Del Cristo e anche della Chiesa […].

Ma non sono meno veri, sia riguardo al Cristo che riguardo alla Chiesa, i testi sacri che ci parlano del più bello dei figli degli uomini, di vesti bianche come la neve, di volto splendente come il sole.

La Chiesa, fonte di santità nella vita privata, la Chiesa fonte di civilizzazione, di ordine e di pace nella vita pubblica.

Madre dei santi, madre delle vergini, madre dei martiri, madre degli apostoli, madre dei dottori, madre dei monaci dissodatori, agricoltori e costruttori, madre dei liberatori degli schiavi, dei guaritori di malati, madre degli ospedali, madre degli orfanotrofi, madre dei profughi, madre delle scuole […], madre del rispetto della donna, madre dello spirito cavalleresco, madre maestra dei popoli, madre delle encicliche sociali, madre mecenate delle arti, madre del gregoriano, madre delle nostre basiliche e delle nostre cattedrali… Madre di due Terese, madre di Francesco, di Bonaventura, di Tommaso, d’Ignazio, di Saverio, di Vincenzo, ecc.

Si può dire di più?

Di più per la durata? Di più per l’universalità delle manifestazioni? Di più per la qualità e l’eroicità di questi benefici?

Sarebbero questi i valori da abbandonare, le causa da abbandonare, l’esercito da cui disertare? Quand’anche, come lei dice, una certa “cricca” non aspetta che l’occasione per demolirci? Lei crede che Bernanos preparasse l’abbandono dell’Arca santa quando scriveva: «Una nuova invasione modernista comincia. Cent’anni di concessioni, d’equivoci, hanno permesso all’anarchia di contagiare il clero. La causa dell’ordine non può più fare affidamento su questi capi declassati. Credo che i nostri figli vedranno le truppe della Chiesa schierarsi accanto alle forze della morte. Sarò fucilato da dei sacerdoti bolscevichi che avranno il Contratto sociale in tasca e sul petto la croce».

Almeno Dio non ha permesso questo. Prova che rimane il Padrone. Oppure è quello che riserva per noi!

A questo proposito, il nome di «Renaude» evocherebbe quello che ci aspetta[8]. Perché, a ben pensarci, la vecchia «Renaude» ha tenuto testa al lupo durante tutta la notte, rifiutando di sdraiarsi e morire prima dell’alba. C’è forse una sorte più invidiabile per ogni soldato di Cristo che rifiuti d’imboscarsi?

Adesso è la notte, il tempo dei lupi. Il tempo in cui essi approfittano delle tenebre per farsi accettare, travestiti da pastori. Il tempo in cui, con le fauci piene di “pace”, avanzano per devastare il gregge.

La notte è il tempo in cui i vili si disperdono; si appiattiscono coloro che tremano, come dice la Scrittura. Il tempo in cui i cattivi pastori preferiscono restare a letto, e gli apostoli hanno le palpebre appesantite dal sonno.

Il tempo dell’attività di Giuda.

Il tempo della solitudine del Maestro.

Ma è anche il tempo in cui lo Sposo si rallegra di trovare le vergini sagge con la lampada piena d’olio e accesa.

È proprio la notte, e malgrado la notte, che bisogna tener duro e combattere.

E quindi, beate la caprette «Renaude» e «Blanquette» le quali, irremovibilmente decise a lottare, si rifiutano di distendersi, per morire solo dopo il sorgere del sole.

Perché, in fondo, l’aurora è comunque la vittoria delle «Renaudes». Il termine della loro missione. Infatti, anche se il lupo si ritira dopo averle sbranate, rimane il fatto che l’aurora è il tempo della fuga dei lupi davanti alla luce. L’ora in cui essi si allontanano dall’ovile. L’ora in cui i pastori, anche quelli mediocri, si svegliano. L’ora in cui i vigliacchi riprendono coraggio, l’ora in cui il gregge può camminare senza paura.

Dio faccia di noi dei veri «Renaudes». E quando suonerà l’ora di distenderci per morire, voglia Iddio che possiamo vedere ad oriente la luce sgargiante non di una stella ma di quella Luce delle genti e il Sole di Giustizia che è il Cristo: aurora di un nuovo ordine cristiano sul mondo.

Il resto conta poco. Dal momento che colui che semina non è lo stesso che raccoglie, non c’è da spaventarsi se le «Renaudes» muoiono sul far del giorno.

La gloria della Chiesa non è una gloria umana. Bisogna che essa sia santa, quasi malgrado noi.

Oserà dire che Essa ci ha lasciato senza insegnamento? Le mancano le encicliche per poter vedere chiaro? I discorsi e gli insegnamenti pontifici non sono abbastanza limpidi?[9] Avanti, le sue reazioni sarebbero meno violente contro il progressismo di certi chierici se lei fosse meno sicuro del loro oblio della dottrina della Chiesa in questa materia.

E allora? Che cosa dovrebbe pensare un ufficiale di un soldato che accettasse di fare il suo dovere solo a condizione che nessuno intorno a lui gli spari alle spalle o disobbedisca? La diserzione sarebbe permessa nel momento in cui qualcuno ne dà esempio?

Prova dolorosa, certo! Ma è quella della nostra speranza e della nostra fede nella Chiesa. Della nostra speranza e della nostra fede nella Croce.

Avanti, caro Amico, riprendiamoci. Come dice in buona sostanza l’autore dell’Imitazione di Cristo: non c’è motivo serio di fermarsi. Camminiamo insieme. Gesù è con noi. Attraverso di Lui saremo caricati della croce, certo, ma sarà nostro sostegno Colui che è il nostro Capo e la nostra Guida. Ecco che il nostro Re cammina davanti a noi. Combatterà per noi, Seguiamolo coraggiosamente. Nulla ci spaventi. Siamo pronti a morire generosamente in questa guerra. E non macchiamo la nostra gloria con la vergogna di aver fuggito la croce (cf. Imitazione di Cristo, L. 3, cap. 56).

O Crux ave Spes unica!

[1] Montanismo: dal nome suo iniziatore, Montano; setta rigorista del II secolo. I seguaci furono anche chiamati “catafrigi”. Montano si autoproclamò nientemeno che l’organo dello Spirito Santo. La setta era caratterizzata da una intransigente rigorismo morale. Sul nascere parve come un movimento di rinnovamento spirituale nel seno della stessa Chiesa, ciò che dovette favorirne grandemente la sua propagazione. (n.d.t.)

[2] Novazianismo: dal nome del suo fondatore Novaziano, presbitero romano del III secolo. La sua dottrina è affine al montanismo per quanto riguarda il rigorismo morale. (n.d.t.)

[3] Quartodecimani: Con questo nome vengono designati i seguaci dell’antico computo ebraico, che poneva la festa di Pasqua al 14 nísan, qualunque fosse il giorno della settimana in cui venisse a cadere, contrariamente alla prassi della chiesa di Roma. Di qui ebbe origine la controversia pasquale. (n.d.t.)

[4] Nel testo francese a mia disposizione trovo letteralmente “débatisants-sbattezzanti”, ma si tratta, salvo migliore giudizio, di uno sbaglio. Deduco dal contesto che si tratti dell’eresia dei rebattezzanti, che erano degli eretici che pretendevano la reiterazione del sacramento del battesimo per i cristiani caduti nell’eresia e successivamente convertiti. (n.d.t.)

[5] Donatisti: dal nome del Vescovo africano Donato che fu all’origine di uno scisma nel 315 durato trecentocinquant’anni. L’origine va ricercata nei dissensi circa la condotta tenuta del clero durante la persecuzione. Secondo questa eresia la Chiesa è la società dei santi e i sacramenti amministrati dai peccatori sono invalidi. (n.d.t.)

[6] Meleziani: dal nome di Melezio, Vescovo di Licopoli nella Tebaide (Egitto), autore di uno scisma che cominciò probabilmente nel 306 e non si estinse del tutto che verso il principio del VI secolo. Di fatto il nostro, mentre il legittimo vescovo di Alessandria, Pietro, era nascosto (siamo sotto la persecuzione di Diocleziano), pare si arrogasse il diritto di procedere come superiore della Chiesa egiziana, visitando, ordinando chierici e scomunicando. Di sentimenti rigoristi, sembra aver considerato la fuga del Vescovo Pietro e dei suoi vicari come tradimento e forse per questo lo stesso Pietro come decaduto dal suo ufficio. (n.d.t.)

[7] Concilio di Trosly: fu uno dei più importanti sinodi provinciali francesi. (n.d.t.)

[8] Qui si fa riferimento alla favola di A. Daudet, La chèvre de M. Seguin, in cui si parla di Renaude e di Blanquette, le due caprette avide di libertà che morirono combattendo per tutta la notte contro il lupo feroce. Solo al mattino, invitte ma stremate, si lasceranno divorare (n.d.t.).

[9] L’A. si riferisce naturalmente all’insieme degli insegnamenti pontifici, al magistero ordinario e universale della Chiesa, il “quod semper et ubique et ab omnibus – ciò che è stato creduto sempre dappertutto e da tutti” di san Vincenzo di Lerino. (n.d.t.)

Abbé Jean-Michel Gleize : Sainte ou misérable ? L’année du Jubilé à l’épreuve de la miséricorde

I – 1965-2015 : le sens d’un Jubilé

1. Depuis le 8 décembre dernier, le Jubilé extraordinaire publié par le Pape François suit son cours. Le successeur de saint Pierre a choisi cette date d’ouverture « pour la signification qu’elle revêt dans l’histoire récente de l’Eglise » (1). L’intention avérée du Souverain Pontife est en effet d’ouvrir la Porte Sainte « pour le cinquantième anniversaire de la conclusion du Concile œcuménique Vatican II ». Ceci est désormais chose faite ; et ceci explique le sens profond de la démarche : dans la ligne du dernier concile, cette Année Jubilaire, vécue dans la miséricorde, a pour but de repousser « toute forme de discrimination » (2). François s’en est d’ailleurs clairement expliqué (3), en faisant explicitement référence à ses prédécesseurs. Lors de l’ouverture du concile Vatican II, Jean XXIII a pris soin d’avertir les fidèles catholiques que « l’Epouse du Christ préfère recourir au remède de la miséricorde, plutôt que de brandir les armes de la sévérité ». A ces propos tenus par le Pape, firent écho ceux de son successeur Paul VI, lors de la clôture du même concile : « La vieille histoire du bon Samaritain a été le modèle et la règle de la spiritualité du Concile ». Dans l’Evangile, cette histoire est une parabole, qui indique de manière imagée ce qu’est la miséricorde. Cinquante ans plus tard, le Pape François ne fait donc que persévérer, avec tout l’éclat et toute la publicité médiatique que comporte l’initiative d’un Jubilé, dans la nouvelle optique adoptée par Jean XXIII et Paul VI. « Le premier devoir de l’Église », a-t-il répété tout récemment (4), « n’est pas celui de distribuer des condamnations ou des anathèmes mais il est celui de proclamer la miséricorde de Dieu, d’appeler à la conversion et de conduire tous les hommes au salut du Seigneur ».

2. Quelle miséricorde ? Quelle conversion ? Quel salut ? Et donc finalement, quelle indulgence ? Ce sont les questions qui se posent de plus en plus, à la conscience des catholiques, depuis cinquante ans. Et l’ouverture du récent Jubilé en souligne toute l’urgence.

II – La vraie miséricorde (5)

3. La miséricorde est une vertu, distincte de toute autre, car ayant son objet et son motif propres. L’objet de la miséricorde consiste à soulager la misère d’autrui. Le motif de la miséricorde est le fait de considérer cette misère d’autrui comme la sienne.

L’objet de la miséricorde.

4. La misère est un mal, et dans l’ordre des choses humaines, le mal se divise adéquatement entre le péché et la peine. La différence capitale entre ces deux sortes de maux est que le péché est commis, alors que la peine est subie. Tout mal involontairement subi (6) est en effet une peine, puisque tout mal est précisément subi en conséquence du péché, originel ou personnel, dont il est le juste châtiment providentiel. Tout mal volontairement commis est un péché, puisque tout mal est précisément commis à l’encontre de la loi divine éternelle. A considérer les choses dans toute leur précision, on comprend alors que le péché et la peine s’opposent : un même mal ne peut pas être à la fois l’un et l’autre sous le même rapport, parce qu’il ne peut être à la fois sous le même rapport commis et subi. En restant dans cette ligne de précision, nous dirons que le péché, parce qu’il est un mal commis volontairement, et dans la mesure précise où il l’est, appelle de soi la justice et donc le châtiment ou la peine ; la peine, au contraire, parce qu’elle est un mal que l’on subit, à l’encontre de sa propre volonté, peut susciter la miséricorde, dans la mesure où le péché qui l’a méritée devient de la part du pécheur objet de regret efficace, c’est à dire de pénitence.

5. La misère, objet de la miséricorde, est précisément le mal subi d’une peine. Il n’y a donc pas à distinguer, du point de vue de la miséricorde, entre le pécheur (qui mériterait la miséricorde) et le péché (qui serait à réprouver), par exemple entre l’homosexuel et l’homosexualité, ou l’adultère et … l’adultère ! En tant que tel, le pécheur se définit comme celui qui commet volontairement le péché, l’homosexuel comme celui qui commet volontairement l’acte contre nature, l’adultère comme celui qui commet volontairement l’injustice d’une indifélité à l’égard de son conjoint. Le pécheur en tant qu’il pèche volontairement mérite la même réprobation que son péché et c’est pourquoi il ne mérite aucune miséricorde. La distinction est possible à un autre niveau, puisque des aspects différents peuvent se rencontrer dans les mêmes choses. Un péché, qui est forcément volontaire, peut dépendre en même temps que du consentement libre, de bien des facteurs qui y ont poussé et qui sont faiblesse, infirmité : par là s’introduit de l’involontaire qui diminue le péché ; par ce côté, il cesse d’être un mal commis pour devenir un mal subi, et donc une misère, et il appelle plutôt l’excuse et le pardon, la miséricorde. Par conséquent, s’il y a une distinction à faire, elle a lieu entre le péché et la misère, entre le pécheur et le misérable, entre l’homosexualité (ou l’homosexuel) et l’infirmité d’une concupiscence contre nature, entre l’adultère et l’infirmité d’une concupiscence malheureusement trop commune. Par accident, le pécheur (et non son péché) peut être objet de miséricorde, non pas dans la mesure où il commet volontairement une action mauvaise, mais en tant qu’il subit involontairement le poids d’une concupiscence mauvaise, qui le pousse malgré lui à contredire les injonctions de la loi divine. Voilà en quel sens il est vrai de dire que nous devons plutôt plaindre le pécheur et le secourir que nous indigner et le condamner. C’est que nous le prenons ici formellement par le côté où il est misère, par le côté où il nous parait avoir des excuses ; nous l’expliquons par tout ce qui a pu s’introduire en lui d’involontaire. Et nous le prenons aussi par le côté où, éventuellement, il déteste l’action mauvaise qu’il a commise et cherche à la réparer. A tous ces points de vue, mais à ces points de vue seulement, la miséricorde peut viser à soulager la misère du pécheur.

Le motif de la miséricorde.

6. Le motif de la miséricorde est toujours le fait de considérer la misère d’autrui comme la sienne propre. Cela est facile à comprendre, si l’on se souvient que la miséricorde est fondamentalement une tristesse, et que l’on ne saurait « avoir mal au cœur » devant la misère d’autrui, à moins qu’elle ne nous touche. Et la misère nous touche, parce que nous la partageons, c’est à dire lorsque nous la faisons nôtre. Toute la question est alors de savoir pourquoi nous faisons nôtre cette misère d’autrui.

7. Il existe une certaine miséricorde naturelle, humanitaire ou philanthropique, en vertu de laquelle tout homme aime naturellement son semblable et partage donc sa misère, qui est celle du genre humain en tant que tel. Cette miséricorde repose en définitive sur un lien objectif et réel (c’est à dire qui ne dépend ni de notre connaissance ni de notre affection, sensible ou volontaire) et qui motive une tendance quasiment spontanée de la nature humaine. On dit précisément de ceux qui la contredisent qu’ils sont « dénaturés ». Cette tendance pousse tout homme normalement constitué à prêter son assistance à toute personne en danger, à tout personne subissant un mal, et le refus de cette assistance constitue même dans certains cas un délit, sanctionné par la loi humaine positive, explicitant en l’occurrence le droit naturel. Mais pour être naturelle et radicalement inviscérée en tout homme, cette miséricorde fait abstraction de la connaissance des racines profondes du mal. Le mal subi, qu’est la misère, ne lui apparaît pas de prime abord comme la conséquence du mal commis, qu’est le péché. Et c’est justement faute de connaître le rapport qui existe entre les deux que cette tendance naturelle à l’homme court toujours le risque de se méprendre.

8. La miséricorde surnaturelle va beaucoup plus loin ; elle suppose la charité. Le motif pour lequel nous voulons ici soulager la misère est en effet l’amitié qui nous rattache à Dieu, selon la grâce. Pour l’amour de Dieu, elle veut soulager tous ceux que peut atteindre la misère, misère spirituelle et corporelle à la fois. Et elle voit dans cette misère, qui atteint le prochain, la conséquence du péché, elle voit dans le mal subi la résultante du mal commis. Et elle voit donc aussi la juste mesure selon laquelle il convient de procéder pour soulager la peine encourue : c’est la mesure selon laquelle le péché qui justifie l’infliction de cette peine cesse d’être voulu par celui qui l’a commis, dans la mesure où le pécheur déteste son péché, dans la mesure aussi où le pécheur a des circonstances atténuantes. Ou du moins dans la mesure où l’exercice de la miséricorde, qui entend diminuer ou même suprimer le mal d’une peine, ne contredit pas les exigences de la justice, qui entend neutraliser le mal d’un péché. Et toute la question est justement là …

III – La vraie miséricorde et la justice (7)

9. La justice est la volonté constante et perpétuelle de rendre à chacun ce qui lui est dû. Elle a donc pour but de régler nos rapports avec autrui. Et elle peut le faire de deux manières : soit avec autrui considéré individuellement, soit avec autrui considéré comme membre d’une société. Il y a donc deux formes de justice : la justice particulière et la justice générale ou légale. La justice particulière rend ce qui lui est dû à un individu pris en tant qu’individu. Elle peut le faire en rendant à cet individu ce qui lui est dû soit de la part d’un autre individu (c’est alors la justice commutative) soit de la part de la société (c’est alors la justice distributive). La justice générale ou légale rend au bien commun de la société ce qui lui est dû par chacun de ses membres. Car le bien de chaque vertu, de celles qui ordonnent l’homme envers soi-même, ou de celles qui l’ordonnent envers d’autres individus, doit être rapporté au bien commun auquel nous ordonne cette justice. De cette manière, les actes de toutes les vertus peuvent relever de la justice en ce que celle-ci ordonne l’homme au bien commun. Et en ce sens la justice est une vertu générale. Et parce que c’est le rôle de la loi de nous ordonner au bien commun, cette justice dite générale est appelée justice légale : car, par elle, l’homme s’accorde avec la loi qui ordonne les actes de toutes les vertus au bien commun.

10. La justice distributive implique le pouvoir de punir par des châtiments, afin de préserver l’ordre social. En effet, la société rend (en tant que telle et par l’intermédiaire de l’autorité) ce qui lui est dû à l’individu fauteur de désordre. Or, ce qui est dû de la part de la société à un fauteur de désordre est précisément la peine, ou le châtiment, qui rétablit l’ordre. Parmi ces châtiments figure en bonne place la discrimination, c’est à dire le fait de ne pas jouir de la même liberté d’action publique que les autres membres de la société. Comme tout châtiment, la discrimination n’est pas un mal mais un bien, du point de vue précis du bien commun, dont elle préserve l’ordre. C’est à dire qu’elle est un bien pour tous, car elle est le moyen requis pour préserver efficacement le bien commun de la vertu contre le mauvais exemple du vice. Elle est aussi en quelque manière un mal, (le mal de peine dont nous avons parlé) pour celui qui la subit. Ce mal involontairement subi par le discriminé (et par lui seul) est sa misère, dont la miséricorde pourra s’occuper pour y remédier. Mais ce n’est pas le mal de faute, le péché volontairement commis par l’autorité qui inflige la peine et impose la discrimination (comme le serait un prétendu manque de charité ou de miséricorde). Et ce n’est pas non plus le mal de peine involontairement subi par la société, c’est au contraire son bien, car c’est œuvre de justice. Il y a donc une différence formelle, au sein de la même réalité : ce qui est un bien du point de vue du bien commun (et en tant que bien, objet de la justice particulière, distributive) est mal de peine du point de vue du bien particulier (et en tant que mal de peine, objet de la miséricorde). Il appartient à la justice générale (ou légale) d’harmoniser les deux. Ce qui veut dire qu’il y a une dépendance de la miséricorde et de la justice particulière à l’égard de la justice générale. Celle-ci ordonne entre elles la justice particulière et la miséricorde et le principe de cet ordre est le bien commun. C’est en se plaçant à ce point de vue supérieur du bien commun que l’on ordonne comme il faut la miséricorde et la justice, au sein d’une même société. Ce qui signifie que dans la sainte Eglise comme dans la société civile les exigences du bien commun resteront toujours la règle et la mesure de la miséricorde. Et n’ayons garde d’oublier que le bien commun par excellence, mesure de tout autre, est le bien divin, Dieu lui-même, en qui justice et miséricorde s’identifient sans se confondre.

IV – La fausse miséricorde du Concile et de François.

11. Depuis le concile Vatican II, nous dit Jean XXIII, « l’Epouse du Christ estime que plutôt que de condamner elle répond mieux aux besoins de notre époque en mettant davantage en valeur les richesses de sa doctrine ». Plus exactement, nous dit encore Paul VI, « des erreurs ont été dénoncées. Oui, parce que c’est l’exigence de la charité comme de la vérité mais, à l’adresse des personnes, il n’y eut que rappel, respect et amour ». L’erreur et le mal sont dénoncées comme tels, mais les personnes sont considérées comme si elles étaient hors de leur atteinte. Ou du moins comme si la considération de la vérité et de la bonté qui se trouvent en elles devait primer sur la part d’erreur et de mal. Paul VI évoque même un « courant d’affection et d’admiration » vis-à-vis de ces personnes. Il y a donc une inversion de rapport : jusqu’ici les exigences de la justice l’emportaient au for externe public sur celles de la miséricorde, car la gravité du péché l’emportait sur celle de la peine, et donc la nécessité d’imposer des discriminations pour préserver la société du péché commis par les personnes l’emportait sur le souci de faire miséricorde aux personnes membres de la société. Désormais, le souci de reconnaître et de promouvoir le bien des personnes l’emporte sur le souci de protéger le bien commun de la société. Ou plutôt, le bien commun de la société est confondu avec la somme des biens particuliers des personnes membres de la société. Le concile a voulu entériner les acquis de la pensée moderne et positionner pour cela l’Eglise au sein d’une société personnaliste et pluraliste.

12. Le propos du Pape François rejoint donc ici parfaitement celui du concile Vatican II : « Que cette Année Jubilaire, vécue dans la miséricorde, […] repousse toute forme de discrimination ». Le concile n’avait-il pas dit en effet : « Toute forme de discrimination touchant les droits fondamentaux de la personne, qu’elle soit sociale ou culturelle, qu’elle soit fondée sur le sexe, la race, la couleur de la peau, la condition sociale, la langue ou la religion, doit être dépassée et éliminée, comme contraire au dessein de Dieu » (8) ; « L’Église réprouve donc, en tant que contraire à l’esprit du Christ, toute discrimination ou vexation dont sont victimes des hommes en raison de leur race, de leur couleur, de leur condition ou de leur religion » (9) ; « Le pouvoir civil doit veiller à ce que l’égalité juridique des citoyens, qui relève elle-même du bien commun de la société, ne soit jamais lésée, de manière ouverte ou occulte, pour des motifs religieux, et qu’entre eux aucune discrimination ne soit faite » (10). La déclaration sur la liberté religieuse pose la non-discrimination en principe. Ce principe se justifie lui-même par la prééminence du bien particulier sur le bien commun. Et par le fait même, Dignitatis humanae érige la miséricorde (qui a pour objet de remédier à la peine, en tant qu’elle constitue le mal d’un particulier) au dessus de la justice (qui a pour objet l’infliction de la peine, en tant qu’elle constitue le bien de tous).

13. Il devrait pourtant être évident (et ce le fut jusqu’ici pendant vingt siècles) que le pouvoir de la société civile comme le pouvoir ecclésiastique ont l’un et l’autre le devoir d’imposer des discrimination à l’encontre de ceux dont les péchés menacent l’ordre public, ne serait-ce que parce qu’ils représentent un scandale, c’est à dire une occasion de péché. Discrimination qui doit s’imposer en raison de la condition sociale ou religieuse des fauteurs de trouble. Condition religieuse s’il s’agit d’un culte public contraire à la vraie religion. Condition sociale s’il s’agit d’un comportement contraire à la loi divine naturelle (union matrimoniale illégitime ; unions homosexuelles). Le concile réprouve à l’inverse toute forme de discrimination : le bien absolument requis pour préserver l’ordre social est éliminé, sous prétexte qu’il représente le mal tout relatif d’une peine (donc une misère) pour les personnes. Et cette élimination se fait au nom du « primat de la miséricorde » (11). Mais du fait même qu’elle met le bien particulier au dessus du bien commun, celle-ci est redéfinie dans un sens personnaliste, étranger à la doctrine traditionnelle de l’Eglise.

14. Plus exactement, il s’agit d’une miséricorde humanitaire ou philanthropique, devenue incapable de saisir le lien qui rattache le mal du péché au mal de la peine. C’est parce que la peine est méritée par le péché qu’elle devient un bien : le bien commun d’une justice commune à toute la société et à toute l’Eglise. Faute de saisir ce lien, l’on ne verra plus dans la discrimination qu’un mal : le mal commun d’une injustice commune à tous les individus, à toute l’humanité. Il est clair que le dogme catholique « Hors de l’Eglise point de salut » exprime une discrimination et passe par la condamnation des « autres traditions religieuses ». La nouvelle conception héritée de Vatican II postule que « la valeur de la miséricorde dépasse les frontières de l’Eglise » (12) et conduit très logiquement (quoiqu’implicitement) le Pape François à voir dans l’enseignement de ses prédécesseurs une injustice, contraire à la miséricorde : « Que cette Année Jubilaire, vécue dans la miséricorde, favorise la rencontre avec ces religions et les autres nobles traditions religieuses. Qu’elle nous rende plus ouverts au dialogue pour mieux nous connaître et nous comprendre. Qu’elle chasse toute forme de fermeture et de mépris. Qu’elle repousse toute forme de violence et de discrimination » (13).

V – Quelle indulgence ?

15. L’aveuglement qui frappe ainsi depuis cinquante ans les hommes d’Eglise, et jusqu’au premier d’entre eux, représente une grande misère. Mais nul doute que celle-ci constitue la juste peine méritée par le grand péché commis lors du Concile : car, ne l’oublions pas, le libéralisme est un péché. Et c’est justement ce péché du libéralisme qui se trouve au principe et au fondement de tout le Concile. Jean XXIII nous l’a dit et répété : « l’Epouse du Christ estime que plutôt que de condamner elle répond mieux aux besoins de notre époque en mettant davantage en valeur les richesses de sa doctrine ». Or, cela est exactement la reprise de l’erreur du libéralisme, condamnée par le pape Grégoire XVI, dans l’Encyclique Mirari vos : « Il est », disait-il, « des hommes emportés par un tel excès d’impudence, qu’ils ne craignent pas de soutenir opiniâtrement que le déluge d’erreurs qui découle de l’absence de condamnations est assez abondamment compensé par la publication de quelque livre imprimé pour défendre, au milieu de cet amas d’iniquités, la vérité et la religion » (14). La fausse miséricorde de François est la fille de la fausse liberté de Jean XXIII et de Paul VI. Le Concile a accouché d’un monstre, et ce monstre est le châtiment de son péché, la punition de ce mariage adultère entre les hommes d’Eglise et la Révolution. Cette punition est la grande misère d’aujourd’hui. L’année qui a été placée sous le signe de la miséricorde a été en réalité placée sous le signe d’un châtiment et c’est pourquoi elle est bien misérable. Non pas sainte mais misérable.

16. Nul doute que le Saint Père conserve, en tant que tel, c’est à dire en tant qu’il agit comme le véritable successeur de Pierre, le pouvoir de dispenser des indulgences et que ce pouvoir demeure ce qu’il est, indépendamment de toutes les circonstances où il s’exerce. Et la Fraternité Saint Pie X, à la suite de son vénéré fondateur, a toujours eu soin d’opérer cette distinction entre le pouvoir du Pape et son exercice : « Nous ne récusons pas l’autorité du pape, mais ce qu’il fait » (15). L’indulgence d’un Jubilé est la remise d’une peine. Sans doute. Mais il s’agit de la peine temporelle que Dieu inflige au pécheur repentant, afin qu’il puisse faire pénitence, et coopérer à son propre rachat, dans la dépendance du mérite du Christ. Autres sont les peines temporelles, autres sont les « discriminations » que l’autorité humaine a la charge d’infliger, afin de préserver la société contre la contagion du mauvais exemple.

17. Et qu’est-ce justement qu’une « peine » pour le Pape François ? « Le Jubilé », nous dit-il (16), « amène la réflexion sur l’indulgence ». Réflexion vaine car impuissante, depuis que le dernier Concile a falsifié les définitions précises de la théologie traditionnelle : à la différence des précédentes, cette Année jubilaire voit l’obscurcissement de la notion même d’indulgence, car la falsification porte précisément sur la notion même de miséricorde, qui est l’un des principes fondamentaux sur lesquels doit reposer la notion catholique d’indulgence.

18. La grande espérance des catholiques passera toujours par la pénitence : un mot qui n’apparaît jamais, pas une seule foi, d’un bout à l’autre de la Bulle d’indiction de ce Jubilé. Nous voulons pourtant demeurer dans cette espérance, et c’est pourquoi, une fois de plus, hélas, « nous ne récusons pas l’autorité du pape, mais ce qu’il fait ». Nous récusons cette notion faussée, libérale et moderniste, de la miséricorde. Nous récusons cet obscurcissement de la notion même d’indulgence. Nous récusons tout ce qui, à travers l’initiative de ce Jubilé décidément extraordinaire, peut faire référence au poison mortel du libéralisme, introduit dans la sainte Eglise par le dernier Concile, depuis cinquante ans. Et nous adhérons de tout cœur à la vraie doctrine traditionnelle, nous professons l’exacte notion de la vraie miséricorde, qui est au fondement de toutes les indulgences pontificales, en union avec tous les saints de l’Eglise catholique, en union avec tous les saints Papes qui nous ont transmis le vrai trésor de la vraie foi, gage du salut éternel de nos âmes.

Abbé Jean-Michel Gleize, prêtre de la Fraternité Sacerdotale Saint-Pie X, Professeur au séminaire Saint-Pie X d’Ecône

Source : La Porte Latine – 11 janvier 2016

Notes

(1) Misericordiae Vultus, n° 4
(2) MV, n° 23
(3) MV, n° 4.
(4) François, « Discours de clôture pour le Synode extraordinaire sur la famille », le samedi 24 octobre 2015.
(5) Saint Thomas d’Aquin, Somme théologique, 2a2ae, question 30 ; Jacques Ramirez, De caritate, t. II, n° 922-988 ; Michel-Marie Labourdette, « Cours de théologie morale », ad locum.
(6) Le mal physique du corps, comme la mort, les coups et les blessures, la maladie, la vieillesse, la pauvreté ; le mal spirituel de l’âme comme la solitude ou le peu d’amis, la séparation d’avec sa famille, le déshonneur, la faiblesse d’esprit ; le mal de la concupiscence et celui de la tentation, qui poussent l’un comme l’autre au péché.
(7) Saint Thomas d’Aquin, Somme théologique, questions 58 et 61.
(8) Gaudium et spes, § 29, n° 2.
(9) Nostra aetate, n° 5.
(10) Dignitatis humanae, n°6.
(11) MV, n° 20.
(12) MV, n° 23.
(13) MV, n° 23.
(14) Grégoire XVI, Encyclique Mirari vos du 15 août 1832.
(15) Mgr Lefebvre, Fideliter n° 66, p. 28.
(16) MV, n° 22.

Vous pouvez retrouver tous les articles d’actualité religieuse de MPI, augmentés d’une revue de presse au jour le jour sur le site medias-catholique.info

Scopri di più su http://www.medias-presse.info/abbe-jean-michel-gleize-sainte-ou-miserable-lannee-du-jubile-a-lepreuve-de-la-misericorde/47155#o5l9mdC5CY5Psf37.99